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Clima, bugie e potere: il ritorno del negazionismo climatico sul palco delle Nazioni Unite

  • SR
  • 22 ore fa
  • Tempo di lettura: 3 min
Clima, bugie e potere: il ritorno del negazionismo climatico sul palco delle Nazioni Unite
Clima, bugie e potere: il ritorno del negazionismo climatico sul palco delle Nazioni Unite


"Il cambiamento climatico è la più grande truffa mai perpetrata ai danni del mondo.”


Così, con una frase che sembra uscita da un talk show di inizio anni Duemila, Donald Trump ha riportato in scena la retorica negazionista più aggressiva proprio nel cuore delle Nazioni Unite. Il suo intervento all’Assemblea generale – 55 minuti di attacchi, provocazioni e revisionismi – ha lasciato attoniti delegati e osservatori, non solo per la forma, ma per il contenuto: un assalto sistematico alla transizione ecologica, alla scienza del clima, e all’idea stessa di cooperazione internazionale.

Il tono era quello di sempre: sprezzante, iperbolico, autocelebrativo. Ma se in passato la narrazione negazionista si era fatta più sfumata, adattandosi ai tempi, oggi Trump l’ha riportata in primo piano con la brutalità verbale che lo contraddistingue. Ha deriso le rinnovabili, definendole “una buffonata”, “costose”, “inefficienti”, accusando addirittura le pale eoliche di “marcire arrugginite” e di essere prodotte tutte in Cina. Un attacco superficiale ma efficace, pensato per evocare nell’ascoltatore una diffidenza viscerale verso ogni tentativo di innovazione sostenibile.


Eppure, la parte più pericolosa del discorso non è stata quella sugli impianti eolici. È l’idea di fondo a preoccupare: la delegittimazione sistematica della crisi climatica, liquidata come un complotto orchestrato da “élite progressiste” per sottomettere l’economia americana. Una retorica che riecheggia vecchi fantasmi, e che si inserisce perfettamente nel contesto più ampio del nuovo populismo internazionale: autoritario nei toni, protezionista nelle soluzioni, fossilizzato – letteralmente – nel suo immaginario energetico.


Trump ha elogiato ancora una volta il “bellissimo carbone pulito” e il “gas americano”, sostenendo che grazie a queste fonti i cittadini avrebbero pagato bollette più basse. Peccato che i dati lo smentiscano: secondo il GSCC Network, da quando è tornato in carica, i prezzi dell’energia elettrica per le famiglie statunitensi sono aumentati del 10% su base nazionale. Ma si sa, il fact-checking fatica a tenere il passo con una macchina propagandistica così ben oliata.

La reazione internazionale è stata mista. In sala stampa, qualche giornalista ha fatto gesti poco diplomatici durante la diretta. Un delegato, uscendo dal Palazzo di Vetro, ha commentato a mezza voce: “Ci mancava solo un discorso negazionista nel 2025”. Nessuno però, tra i grandi alleati occidentali, si è davvero esposto per contrastare il messaggio di Trump. Neppure l’Italia, la cui premier, Giorgia Meloni, ha confermato in un breve scambio con i giornalisti di condividere “molte delle cose dette da Trump sul Green Deal”. Un’affermazione che – se confermata – suona come un allineamento ideologico, più che come una semplice posizione di politica energetica.


Eppure, proprio mentre il presidente americano rilanciava la sua crociata anti-clima, a New York prendeva forma una delle mobilitazioni ambientali più partecipate dell’ultimo decennio. La Climate Week NYC 2025, con oltre mille eventi diffusi nei cinque borough, ha mostrato l’altra faccia dell’America: quella che investe, sperimenta, educa e connette. Dalle aziende alle università, dai collettivi creativi agli attivisti locali, il messaggio era chiaro: la trasformazione è già iniziata, ed è guidata dalla società civile, nonostante le resistenze istituzionali.

Nel frattempo, sul palco dell’ONU, il presidente brasiliano Lula dava un segnale forte e diretto. Senza mai citarlo, ha demolito punto per punto il discorso di Trump: ha denunciato le forze “che glorificano l’ignoranza”, chi “limita la stampa e soffoca le istituzioni”, e ha rilanciato la proposta di riformare la governance climatica globale. Secondo Lula, è tempo di riportare la lotta al cambiamento climatico al centro dell’agenda politica internazionale, superando anche il principio dell’unanimità che oggi rallenta ogni decisione dentro l’ONU.

È una proposta ambiziosa, forse utopica, ma che risponde alla domanda più urgente del nostro tempo: chi guiderà il mondo nella transizione ecologica?


In vista della COP30, che si terrà proprio in Brasile, la partita è ancora tutta da giocare. Le Nazioni devono presentare i loro nuovi piani climatici per il prossimo decennio. L’Europa ha già dichiarato di voler ridurre le emissioni tra il 66,25% e il 72,5% entro il 2035 rispetto ai livelli del 1990. Ma gli occhi sono tutti puntati su due attori: la Cina, e – di nuovo – gli Stati Uniti. Perché, piaccia o no, quando il leader della prima economia mondiale definisce il cambiamento climatico “una truffa”, le conseguenze non sono solo politiche. Sono culturali. E possono rallentare l’azione di interi governi, infettare l’opinione pubblica, sabotare ogni forma di cooperazione.

Quello che abbiamo ascoltato a New York non è stato il discorso di uno statista. È stato il comizio di un uomo che conosce bene la potenza delle parole, e sa usarle per dividere, disorientare, seminare sfiducia. Di fronte a questo, il silenzio è complicità. Serve una risposta collettiva, netta, informata. E soprattutto, serve ricordare che non c’è nulla di più pericoloso, nel mezzo di una crisi planetaria, che fingere che non esista.







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