Il caso Coca-Cola e il greenwashing: un campanello d'allarme per la comunicazione ambientale
- SR
- 23 mag
- Tempo di lettura: 2 min

Nel maggio 2025, Coca-Cola ha annunciato una revisione significativa delle sue etichette ambientali in Europa. Una mossa non volontaria, ma conseguenza diretta di una denuncia per greenwashing presentata nel novembre 2023 dal BEUC (Bureau Européen des Unions de Consommateurs), con il supporto di organizzazioni ambientaliste come ClientEarth ed ECOS.
Il caso ha sollevato un dibattito cruciale sulla trasparenza delle dichiarazioni ambientali e sui limiti della comunicazione sostenibile, non solo per Coca-Cola ma per l’intero comparto del beverage.
Le accuse: tra “100% riciclato” e realtà dei materiali
Il cuore della denuncia riguarda alcune dichiarazioni riportate sulle bottiglie in PET di Coca-Cola, tra cui:
"100% riciclabile"
"100% riciclato"
L’uso di immagini e simboli “green” che suggerivano un impatto ambientale neutro.
Secondo BEUC, questi claim sono ingannevoli per due motivi fondamentali:
Inaccuratezza tecnica: i tappi e le etichette non sono prodotti con materiali riciclati (né lo possono essere in base alla normativa UE). Inoltre, in molti casi la plastica della bottiglia è solo parzialmente composta da materiale riciclato, con una quota ancora significativa di plastica vergine.
Contesto non considerato: la possibilità che un prodotto sia effettivamente riciclato dipende da infrastrutture locali di raccolta, processi di selezione efficaci e impianti di trattamento adeguati — condizioni non sempre garantite.
La risposta di Coca-Cola: un passo avanti, ma non risolutivo
A seguito della pressione regolatoria e mediatica, Coca-Cola ha accettato di modificare la comunicazione ambientale sui suoi imballaggi. Alcuni degli impegni assunti includono:
Specificare chiaramente che il claim "100% riciclato" riguarda solo il corpo della bottiglia, escludendo tappi ed etichette.
Evitare formulazioni che suggeriscano un ciclo chiuso del riciclo, come “Recycle me again”, sostituendole con espressioni più neutre (“Recycle me”).
Rimuovere elementi visivi e simboli che potrebbero rafforzare un’immagine ecologica eccessivamente ottimistica.
Inoltre, Coca-Cola ha promesso coerenza anche nella comunicazione digitale e promozionale, inclusi i social media.
Un precedente importante per l’intero settore
Questo caso rappresenta il primo risultato tangibile derivante dal reclamo del BEUC, che ha coinvolto anche altre aziende del settore, come Danone e Nestlé Waters. La sua rilevanza va ben oltre Coca-Cola: evidenzia la necessità di standard più stringenti e di una vigilanza attiva da parte delle autorità di tutela dei consumatori.
Secondo i dati forniti dalle ONG, solo il 55% delle bottiglie in PET nell’UE viene effettivamente riciclato, e di queste meno del 30% torna a essere una bottiglia. In questo contesto, affermare che un prodotto sia “100% riciclabile” senza specificare le condizioni necessarie equivale a fornire informazioni parziali o fuorvianti.
Greenwashing: errore strategico e rischio reputazionale
Il greenwashing non è solo una pratica eticamente discutibile: rappresenta un rischio reputazionale elevato in un contesto dove la sostenibilità è sempre più centrale nelle decisioni di consumo.
L’evoluzione normativa europea – dal Green Claims Directive al nuovo regolamento sulla comunicazione ambientale – sta rendendo più difficile utilizzare claim ambientali vaghi, assoluti o non verificabili. In questo scenario, le imprese devono rivedere in profondità i propri messaggi ambientali, evitando scorciatoie comunicative.
Il caso Coca-Cola è un monito: la sostenibilità comunicata non può prescindere dalla sostenibilità verificabile. La sfida non è solo ridurre l’impatto ambientale reale, ma anche comunicare in modo onesto, preciso e comprensibile.
In un’epoca in cui i consumatori chiedono autenticità e coerenza, ogni messaggio è un contratto di fiducia. E infrangerlo può costare caro.
Commenti