Protezionismo e sostenibilità: il doppio volto dei nuovi dazi statunitensi
- SR
- 9 apr
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Il 2 aprile 2025, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato una nuova ondata di dazi commerciali, imponendo tariffe fino al 46% su una vasta gamma di beni importati da economie chiave come Cina, Giappone, Vietnam e Unione Europea. Presentata come una misura di "liberazione economica", questa politica ha ufficialmente preso il nome di Liberation Day, con l’entrata in vigore prevista per il 5 aprile. Al centro del provvedimento, la volontà di ridurre la dipendenza dalle importazioni e di rafforzare l’industria americana, in un rinnovato spirito di America First. Tuttavia, al di là delle logiche economiche, le ripercussioni ambientali e sistemiche di questa scelta rischiano di essere profonde e durature.
Il protezionismo tra logiche industriali e costi ambientali
Il ritorno a politiche commerciali restrittive porta con sé una ridefinizione delle catene del valore globali. Teoricamente, disincentivando le importazioni da Paesi con standard ambientali meno stringenti, si potrebbe favorire un parziale reshoring produttivo verso il territorio statunitense, dove le normative ecologiche risultano più severe. Questo rientro industriale, se accompagnato da politiche adeguate, potrebbe incentivare una maggiore internalizzazione dei costi ambientali, ovvero una corretta inclusione degli impatti ecologici nel prezzo finale dei prodotti.
In parallelo, una riduzione dei flussi commerciali internazionali potrebbe portare a una lieve contrazione delle emissioni legate alla logistica globale – un settore notoriamente ad alta intensità di carbonio. Meno rotte intercontinentali, meno trasporto aereo e marittimo, dunque, in teoria, meno CO₂.
Tuttavia, questi effetti positivi rimangono per ora ipotetici e marginali rispetto a un quadro ben più problematico.
Boomerang verde: i dazi contro le energie rinnovabili
Le tariffe imposte colpiscono in modo trasversale l’intero ecosistema industriale, inclusi settori strategici per la transizione ecologica: mobilità elettrica, energie rinnovabili, batterie, materiali critici. Componenti fondamentali come celle per accumulatori, moduli fotovoltaici e turbine eoliche – spesso importati da fornitori asiatici o europei – vedranno aumenti di prezzo significativi, fino al 40%.
Secondo stime di settore, il costo medio di un veicolo elettrico potrebbe crescere di oltre 10.000 dollari per unità. Un simile scenario minaccia di rallentare la diffusione delle tecnologie a basse emissioni, alterare la competitività delle imprese green statunitensi e disincentivare gli investimenti in ricerca e sviluppo. In sintesi: un boomerang verde.
Effetti sistemici: distorsioni, frammentazione e corsa al ribasso
A livello geopolitico, la risposta internazionale non si è fatta attendere. L’Unione Europea ha annunciato l’intenzione di attivare contromisure, mentre la Cina potrebbe seguire una linea simile. Queste reazioni rischiano di alimentare una spirale di ritorsioni commerciali che va ben oltre le logiche economiche, minando la cooperazione globale su temi chiave come il cambiamento climatico, l’energia e l’innovazione sostenibile.
Non solo: per mantenere la competitività, alcuni Paesi esportatori potrebbero essere spinti ad abbassare ulteriormente i propri standard ambientali, dando origine a una pericolosa race to the bottom. Un fenomeno che contrasta apertamente con i principi dell’Accordo di Parigi e con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite.
Il caso europeo e italiano: tra impatti economici e incertezza ecologica
L’Europa si trova ora di fronte a un bivio. L’Italia, per esempio, ha esportato nel 2024 beni per un valore di 64 miliardi di euro verso gli Stati Uniti. Secondo un rapporto di Confindustria, i nuovi dazi potrebbero causare una contrazione del PIL dello 0,4% e la perdita di oltre 27.000 posti di lavoro, colpendo in particolare i settori manifatturiero e automobilistico.
A fronte di un aumento dei costi di esportazione, molte imprese potrebbero decidere di tagliare gli investimenti in innovazione e tecnologie verdi, compromettendo gli sforzi per una produzione più sostenibile. In altri casi, si potrebbe assistere a una delocalizzazione della produzione verso Paesi con standard ambientali più permissivi, aggravando ulteriormente l’impatto ecologico globale.
Verso una transizione a due velocità?
Il rischio più ampio è quello di una transizione energetica a due velocità: da un lato, le economie che continuano a investire senza barriere nel green tech; dall’altro, quelle intrappolate in logiche protezionistiche, incapaci di allineare politiche commerciali e obiettivi climatici.
Se i dazi non verranno accompagnati da una strategia industriale orientata alla decarbonizzazione, con incentivi all’innovazione, piani di investimento pubblico e collaborazione internazionale, gli Stati Uniti rischiano di perdere il ruolo di guida nella lotta al cambiamento climatico.
La sfida che si apre oggi è più che economica: è sistemica. Le politiche commerciali non possono più essere pensate come strumenti indipendenti dalle dinamiche ambientali. La sostenibilità, per essere autentica, richiede coerenza tra le strategie industriali e gli obiettivi ecologici. In assenza di un approccio integrato, il protezionismo rischia di diventare un ostacolo – più che una soluzione – nella corsa contro il tempo per mitigare la crisi climatica.
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